Più di trent’anni fa, prima dell’avvento dei social media, in un editoriale su Newsweek, Isaac Asimov scriveva: “c’è un culto dell’ignoranza negli Stati Uniti e c’è sempre stato. Il flusso di anti-intellettualismo è stato il costante filo rosso che ha avvolto la nostra vita politica e culturale, nutrito dalla falsa nozione che democrazia significhi che ‘la mia ignoranza è altrettanto valida della tua conoscenza’”. Si tratta di una conferma delle capacità predittive di Asimov nell’immaginare il nostro futuro, a partire dal presente.
Nel gennaio del 2017, il New Yorker ha pubblicato una vignetta che presto ha raggiunto un successo virale. Vi si raffigurava un passeggero di un aereo in piedi nel corridoio che si rivolge agli altri passeggeri, i quali sembrano votare per alzata di mano. Sotto la vignetta, una scritta riportava ciò che stava dicendo l’uomo in piedi: “questi piloti fanno i superbi e hanno perso il contatto con i normali passeggeri come noi. Chi pensa che dovrei esser io a pilotare l’aereo?”. Le mani alzate dei passeggeri rivelavano la risposta positiva.
E’ stato appena tradotto in Italia il volume di Tom Nichols, dal titolo La conoscenza e i suoi nemici. L'era dell'incompetenza e i rischi per la democrazia. In esso si descrive – con un certo allarme - l’avvento di una vera e propria campagna contro l’established knowledge, non solo, quindi, contro l’establishment. La tesi è che la crescente e diffusa protesta contro le élite – che molti vedono come caratteristica comune dei diversi movimenti populistici nel mondo - porti con sé anche il più profondo e generalizzato “rifiuto degli esperti”, cioè del paradigma della conoscenza cosiddetta mainstream, in base al quale i governi tendono a prendere le loro decisioni.
Il punto di attacco dunque non sarebbe quindi sferrato solo contro la classe dirigente politica, ma anche contro il paradigma culturale condiviso dai politici e dai loro esperti, dalle cosiddette élite. Una critica, quindi, più profonda di quella rivolta alla cultura dominante, dal momento che – a detta di Nichols – essa finisce per estendersi ad ogni tipo di approfondimento culturale e ad ogni campo: dall’economia ai vaccini, dall’immigrazione all’effetto serra e così via.
Il problema della morte dell’expertise non sarebbe dato dalla nostra ignoranza, da quello che non sappiamo. Ma, al contrario, per una paradossale inversione della maieutica socratica, “da quello che non sappiamo di non sapere”. Nascerebbe, cioè, da un profondo mutamento culturale per il quale non solo non ci fidiamo più degli esperti ma riteniamo che su ogni questione, per quanto complessa, possiamo far meglio da soli. E’ il trionfo dell’auto-opinionismo: riteniamo di avere un’opinione su tutto e per di più siamo convinti sia quella giusta. Secondo gli psicologi cognitivi Sloman e Fernbach questo processo si è rafforzato con l’avvento dell’Internet society. Un recente esperimento condotto all’Università di Yale da Fisher, Goddu, Keil ha mostrato che l’uso di Internet per la ricerca di informazioni alimenta l’illusione della conoscenza, in quanto si tende a credere che tutto ciò che può esser facilmente ritrovato ‘fuori di noi’ nella Rete, sia “un partner della nostra memoria” e, quindi, della nostra mente. La facilità di reperire informazioni in Rete alimenterebbe l’illusione della conoscenza e il cercare selettivamente solo ciò che conferma le nostre tesi agirebbe poi da ulteriore meccanismo rafforzativo delle nostre convinzioni. Self-confidence e confirmation bias rischiano di diventare allora, in Rete, due meccanismi interdipendenti che riducono il confronto, limitano - di fatto - la conoscenza, polarizzano ed estremizzano le opinioni.
Ce n’è quanto basta per chiedersi quale sia il futuro della democrazia diretta se la nostra conoscenza di temi, anche decisivi, risulta così superficiale e illusoria. Perché lo specchio delle brame – è vero - mostra ciò che vogliamo vedere. Ma soprattutto nasconde, ai nostri occhi, ciò che vogliamo negare.