pubblicato su IlSole24Ore 11 dicembre
La contestazione antitrust avviata, contestualmente, e in via bipartisan, da 48 tra distretti e territori USA e dalla Federal Trade Commission, contro Facebook, dopo circa 18 mesi d’indagine, segue di qualche settimana il caso aperto dal Department of Justice contro Google. Gli elementi in comune, tra i due casi, rivelano quella che è la nuova frontiera del diritto antitrust americano, dopo anni di dibattiti e discussioni teoriche: i dati rivelati, la profilazione algoritmica, l’ambito di scelta dei consumatori nelle piattaforme, l’assenza di interoperabilità tra piattaforme concorrenti, l’uso strategico di acquisizioni di potenziali rivali, sono tutti elementi che concorrono a determinare e mantenere, strategicamente, posizioni di dominanza a detrimento della concorrenza e della qualità dei servizi offerti agli utenti.
Una dominanza che, in diversi mercati, consente, secondo questo nuovo approccio dell’antitrust statunitense, una valorizzazione esclusiva dei dati personali attraverso le diverse forme di inserzionismo pubblicitario. Il dato, dunque, come bene economico e come asset strategico e non soltanto come diritto personale della privacy dell’utente. E le vittime, nella nuova accusa a Facebook, stanno nei due lati del mercato “dei social network”: i consumatori che, ancorché ottengano servizi a prezzi nulli, vedrebbero degradata la qualità del servizio, anche sotto il profilo della scelta dei gradi di profilazione e di esposizione dei dati, e la libertà di scelta tra alternative; gli inserzionisti pubblicitari che sarebbero costretti a rivolgersi alla piattaforma e ad accettarne le condizioni commerciali e tecniche, in assenza di concorrenti altrettanto diffusi.
L’accusa a Facebook è molto dura e va ben al di là dei dibattiti teorici, che per anni hanno riguardato le piattaforme, in merito alla caratterizzazione dei dati - in teoria rinnovabili - come risorsa essenziale o l’acquisizione dei dati degli utenti come asset necessario per migliorare la qualità del servizio o generarne di nuovi.
Sotto attacco vi è proprio l’asserita complessa strategia di Facebook di raccolta dati e profilazione, e il suo modello di business, visto non più come una neutrale cascata di efficienze dinamiche ma come strategia selettiva ed escludente. Non a caso viene riscoperta, persino per un caso di abuso di posizione dominante, la vecchia categoria dell’intent, con tanto di dichiarazioni riservate di Mark Zuckerberg, dopo l’acquisizione di Instagram, nelle quali si rivelava l’intenzione di eliminare una minaccia concorrenziale, anziché quella di sviluppare indispensabili sinergie tecnologiche. Anzi, proprio sul campo della tecnologia, Facebook viene oggi accusata di praticare una strategia un tempo imputata a Rockfeller: “buy or bury”, compra o seppellisci i tuoi rivali. Molte acquisizioni, in primis Instagram e Whatsapp, pure un tempo autorizzate dall’antitrust americano, vengono ora messe sul banco degli imputati come pezzi di una strategia escludente che avrebbe danneggiato anche gli sviluppatori delle interfacce (API), attirati da Facebook in un primo momento dentro il proprio ecosistema e poi, secondo l’antitrust USA, minacciati ed espulsi laddove avessero dimostrato segni di emancipazione. La questione ora si sposta sul confronto istruttorio e sulla minaccia dei rimedi: da quella di separazione forzata (break up) a quella della piena interoperabilità e della negoziabilità di dati, algoritmi e setting della privacy da parte degli utenti.
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