Il caso Cambridge Analytica ripropone due grandi questioni circa l’evoluzione dell’ecosistema digitale: l’appropriabilità di dati personali e il loro uso profilato per le strategie di (dis)informazione commerciale e politica.
Il primo tema, quello della protezione dei dati personali, è da tempo presieduto da un sistema di regole e di enforcement che si sta man mano affinando. Al contrario, la questione dell’uso del dato profilato per la promozione ingannevole (phishing) di messaggi di propaganda commerciale o politica, o per l’induzione a compiere azioni (nudging) nella sfera dei consumi o delle scelte politiche, resta ancora confinata ai dibattiti tra opposte visioni della rete che oscillano da uno spazio di libertà incontaminato alla paura di un ‘grande fratello’ che ci osserva e ci manipola.
Eppure è quest’ultimo l’aspetto che più preoccupa rispetto alla relazione tra big data, pluralismo e democrazia. Non solo perché mancano regole ‘pubbliche’, ma soprattutto perché non abbiamo ancora risposto, come società, alla domanda fondamentale su cosa vorremmo fosse l’ecosistema informativo digitale.
Per fare qualche passo in più, occorre chiedersi cosa più ci colpisce del caso Cambridge Analytica: l’acquisizione in sé di dati (talvolta rilasciati consapevolmente dagli utenti) o anche il fatto che i dati profilati – comunque rilasciati – siano poi usati per influenzare, tramite manipolazioni delle informazioni rilevanti, la nostra esperienza informativa e persino il nostro voto? Saremmo disposti a chiamare ‘imbroglio’ il fatto di essere destinatari di una rappresentazione del mondo falsa, per quando da noi giudicata condivisibile, a colpi di like?
Di solito accade il contrario: la par condicio che invochiamo è spesso quella a favore delle nostre idee e contro quelle che contrastiamo. Al punto che riteniamo non affidabili proprio quei media che ci rilasciano flussi informativi non coincidenti con la nostra pregressa visione del mondo. L’ultima indagine Gallup-Knight Foundation rivela che metà degli americani ritengono inaffidabili i media. Gli intervistati si dividono, tuttavia, in funzione del proprio orientamento politico, su quali siano poi i media più corretti. Fox News, per dire, è giudicata affidabile dal 60% degli elettori repubblicani. La sfiducia nei media sembra dunque un effetto della polarizzazione politica che pure i media contribuiscono a generare. Il che ci riporta al successo delle camere d’eco e della profilazione che dipende proprio dalla capacità di confermare i nostri pre-giudizi, anziché falsificarli, nel web come nei media tradizionali.
Per quanto ci sforziamo, tutti noi siamo cascati, almeno una volta, negli inganni, nelle fake news, nelle strategie di disinformazione e di polarizzazione. Prima di discutere di nuove regole – pubbliche o private – occorre allora chiedersi se la formazione della cosiddetta opinione pubblica e la composizione dell’agenda setting, cioè degli argomenti che la società ritiene prioritari per le scelte pubbliche, seguano davvero dinamiche libere, aperte e consapevoli nelle frammentate agorà digitali.
Non si tratta qui di valutare le regole e i rimedi autonomamente decisi dai giganti del web. Il nodo che spetta a tutti noi sciogliere è se la società, nel suo complesso, ritenga o meno un danno per la democrazia, nel rapporto tra libertà d’espressione e potere, la possibilità che ciascuno di noi venga ‘circondato’, nella propria esperienza in rete, da un mondo informativo ritagliato da altri su misura per noi, in base al doppio filtro delle preferenze rivelate e di quelle che rafforziamo tramite ciò che ci viene ‘suggerito’.
Si tratta di un tema che riguarda il futuro del pluralismo, la qualità dell’informazione, la formazione della libertà di scelta e il grado di consapevolezza che vorremmo la guidasse.