Nei giorni successivi alla sospensione dell’account personale di Donald Trump, da parte di Twitter e Facebook, il dibattito si è polarizzato, com’era facile attendersi, tra i sostenitori della libertà d’espressione assoluta, priva di qualsiasi vincolo e moderazione, e coloro che ritengono la decisione non solo legittima (date le regole vigenti) ma anche opportuna. Inevitabilmente, tuttavia, il tema della discrezionalità, del mancato contraddittorio, della trasparenza di dati e algoritmi, della possibile discriminazione tra utenti e così via, è emerso in tutta la sua complessità e urgenza.
Al di là della natura privata delle piattaforme, infatti, la rilevanza che esse hanno assunto per lo spazio del discorso pubblico richiede che si introducano, come proposto dal Digital Services Act europeo, opportune garanzie di terzietà e trasparenza nelle procedure, nonché requisiti di verificabilità da parte di soggetti terzi indipendenti. Ciò, a maggior ragione, se oggi sono le stesse piattaforme, come ha sottolineato il Commissario europeo Bréton, ad evidenziare per prime i rischi concreti che possono derivare, in talune circostanze, da parole incendiarie e appelli a insurrezione e violenza.
D’altra parte, la necessità di politiche di moderazione delle conversazioni on-line trova il suo fondamento in molteplici studi empirici che evidenziano da un lato la frammentazione delle stesse tra gruppi ben definiti di utenti, con spinte progressive alla polarizzazione e, in taluni casi, all’estremizzazione; dall’altro, dalla consapevolezza che quelle conversazioni, filtrate dalla profilazione algoritmica, sono tutt’altro che neutrali sotto il profilo tecnologico, quanto alle dinamiche d’incontro (matching) tra domanda e offerta di contenuti.
Questo dibattito si è tuttavia arricchito, negli ultimi giorni, di un altro elemento che ne aumenta la complessità, alimentando nuove domande.
Si tratta della decisione degli store di Apple, Google e Amazon di sospendere dal proprio market placepiattaforme social, concorrenti di Facebook e Google, che escludano ogni forma di moderazione dei contenuti. Uno dei primi casi è quello della piattaforma “Parler”, alla quale molti sostenitori di Trump e della sua visione politica sono transitati, anche in Italia. Questa piattaforma, ad oggi, fa dell’assenza di politiche di moderazione la propria leva competitiva contro le principali piattaforme globali e ha visto cresce enormemente nell’ultimo anno il numero di utenti.
La vicenda è rilevante per due ragioni. Innanzitutto, perché sposta il tema della moderazione dalle singole piattaforme ai principali store dai quali scarichiamo le App, facendolo di fatto diventare un requisito essenziale e non una scelta. In secondo luogo, perché un tema che tipicamente riguarda la dimensione del pluralismo on-line (le politiche di moderazione) finisce per intrecciarsi con un tema competitivo (l’entrata di nuove piattaforme concorrenti contro quelle già stabilite sul mercato).
Per molto tempo, per i giornali e le radio-tv, abbiamo pensato che concorrenza e pluralismo andassero a braccetto, nel senso che una più ampia libertà di scelta da parte degli utenti, garantisse anche un maggior pluralismo delle idee. Questa impostazione, tuttavia, presupponeva una sorta di consumatore razionale, interessato al confronto nel mercato delle idee esattamente come lo è nel mercato dei prodotti. Purtroppo, una crescente letteratura empirica comportamentale ci rivela che non è cosi. Di fonte all’eccesso di informazioni in concorrenza sul web, tendiamo a selezionare un mondo assai più piccolo, fatto di gruppi che ci somigliano, prigionieri delle nostre “stanze d’eco” (echo chamber). E certo il rischio di avere tanti social, in concorrenza ma omogenei al proprio interno per idee politiche e culturali, rappresenterebbe il passaggio da echo chamber a echo platform con un impoverimento del dibattito culturale e, in fondo, del senso autentico della libertà d’espressione, secondo quanto direbbe Hanna Arendt. E tuttavia anche qui si pone il problema di chi debba stabilire queste regole di ammissibilità delle piattaforme all’interno degli store rispetto ad una ipotesi di net neutrality tra store e fornitori di App. Non dovrebbe essere un regolatore indipendente? Tanto più che una delle misure, proposte a livello europeo, per migliorare la concorrenza tra piattaforme consiste proprio nel facilitare l’entrata di nuove piattaforme anche attraverso l’interoperabilità tra le stesse.
E’ questo un tema nuovo, a cavallo tra concorrenza e pluralismo, che si aggiunge alla lunga lista dei problemi regolatori che l’Europa è chiamata a risolvere.
Editoriale Pubblicato il 12/1/21 su IlSole24Ore
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