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Antonio Nicita

Geoblocking e 'portabilità' tra diritti e contratti


Nel documento di avvio della Consultazione relativa al geoblocking e ad altre restrizioni di natura geografica, la Commissione europea sottolinea che “i blocchi geografici e altre forme di discriminazione fondate sulla nazionalità o il luogo di residenza sono chiaramente contrari ai principi enunciati nel trattato dell'UE”.http://www.corrierecomunicazioni.it/l-europa-che-verra/38324_vince-la-lobby-dell-audiovisivo-dietrofront-dell-europa-sull-abolizione-del-geo-blocking.htm I principi del Trattato cui si riferisce la Commissione sono molteplici e concordanti: la creazione del mercato unico, la libera circolazione di beni, servizi e persone, la libera concorrenza, la libera iniziativa d’impresa. La pratica del geoblocking si riferisce in particolare alla definizione di diritti di proprietà (non solo di copyright) i cui usi vengono determinati, e differenziati, sotto il profilo geografico. Nel contesto europeo, ciò significa una definizione degli usi di determinati diritti proprietari geograficamente limitata al livello nazionale. Sotto il profilo economico, la differenziazione geografica dei diritti proprietari, per beni e servizi omogenei rispetto alla domanda, viene spesso giustificata sulla base della diversa disponibilità a pagare per il bene o servizio da parte della popolazione residente in diverse aree territoriali. In questa ipotesi, prezzi differenziati, rispetto a prezzi medi, permettono forme di discriminazione di prezzo efficiency enhancing, allocando alla domanda, territorialmente diversificata quanto alla disponibilità a pagare, una maggiore quantità di beni e servizi rispetto a quella allocabile con prezzi medi. Tuttavia, sotto il profilo della tutela della concorrenza, moltissimi casi antitrust europei hanno finito per giudicare come ingiustificatamente restrittive pratiche di divieto di importazioni parallele generate da diritti contrattuali o proprietari in quanto fattori di ostacolo alla creazione di un mercato unico europeo, altrimenti possibile in assenza di quelle restrizioni. E’ bene qui sottolineare che il tema della discriminazione geografica, per quanto strettamente connesso, è intrinsecamente diverso dal tema della protezione di una proprietà intellettuale tout-court e della tensione ‘dinamica’ tra proprietà intellettuale e concorrenza. Coloro che infatti criticano la creazione artificiale di mercati territoriali distinti in base alla definizione dei diritti di proprietà (intellettuale) non mettono in alcun modo in discussione la tutela del diritto, bensì il suo ‘management territoriale’. Non il diritto dunque, ma il modo in cui questo viene sfruttato. L’efficienza perseguita dalla discriminazione di prezzo su base territoriale, infatti, rischia di essere ‘spiazzata’ dalla minore concorrenza derivante dalla compartimentazione artificiale dei mercati (e della domanda). I trade-off, come si vede, abbondano e il dibattito è da anni aperto in Europa e guidato, fin qui, da numerose decisioni antitrust. Lo sviluppo di nuove forme di fruizione di contenuti audiovisivi e musicali, in più dispositivi e in diverse modalità, cambia tuttavia profondamente il quadro in taluni aspetti. Una delle caratteristiche della società digitale connessa è, infatti, data proprio dalla possibilità di consumare anything anywhere. E’ una possibilità così pervasiva da costituire quasi una caratteristica intrinseca della domanda del bene consumato. Ebbene oggi, in ragione di un fondamentale equivoco sulla relazione tra diritti e contratti, le limitazioni di geoblocking, pensate per limitare territorialmente il diritto di proprietà (ciò che è venduto nel paese A non può esser venduto nel paese B) finiscono per limitare territorialmente anche i contratti, cioè l’uso privato dei diritti, non da parte dell’impresa, ma da parte del consumatore cui sono stati alienati. Dal punto di vista dell’efficienza economica, qui, non vi è alcuna giustificazione per la quale chi acquisti un prodotto audiovisivo nel paese A (in quanto in quel paese sono definiti i diritti di vendita) non possa poi fruirne nel paese B (in quanto in quel paese decida di fruirne, trovandovisi temporaneamente). Una questione da più parti indicata come il problema della portabilità dei contenuti (un termine da ridefinire almeno come ‘portabilità interna’, per distinguerlo dall’altro problema – pure rilevante - della portabilità ‘esterna’ di contenuti tra piattaforme distinte). A maggior ragione, laddove si consideri il caso in cui il fruitore abbia già acquistato il prodotto (diventandone dunque titolare) per fruirne privatamente e ripetutamente, a proprio piacimento, dovunque. Insomma il contratto (che sia di acquisto, di affitto o di visione in streaming con abbonamento flat) conferisce all’acquirente il diritto di fruire del bene. E il prezzo che viene pagato riflette la disponibilità (media) a pagare del territorio nel quale viene definito il contratto. Il divieto tout court di fruire del bene in un luogo diverso da quello nel quale si è realizzata la sottoscrizione originaria finisce, invece, per estendere agli usi contrattuali nei rapporti tra vendor e cliente i limiti degli usi proprietari tra titolare dei diritti e vendor. Ora, pur volendo ammettere, in ipotesi, che la discriminazione territoriale serva davvero a differenziare l’offerta in base alla domanda associata alla presunta (e tutta da dimostrare) diversa disponibilità media a pagare nei diversi Stati membri, è facile osservare che questa presunta ragione di efficienza non verrebbe comunque intaccata in alcun modo dalla portabilità (interna). Ciò perché l’acquisto di chi si trovi temporaneamente a consumare il bene nel paese B viene comunque effettuato secondo le regole fissate nel paese A. Vale a dire che la ‘territorialità’ del consumo non influenza la ‘territorialità’ a monte dei diritti e il loro valore economico. Non essendovi dunque a mio avviso alcuna ragione economica di efficienza, le uniche giustificazioni per vietare la portabilità potrebbero forse risiedere (i) su eventuali costi incrementali non corrisposti, (ii) sul possibile moral hazard, ovvero sul possibile opportunismo degli utenti (ci ‘fingiamo’ cittadini del paese con prezzi più bassi per consumarlo ‘in casa nostra’) o (iii) su possibili azioni di ‘pirateria’ (acquisto in un altro paese a prezzi più bassi o nulli per rivenderlo in un altro paese). Con riferimento al primo aspetto, il tema non si pone perché eventuali costi incrementali sostenuti dalla piattaforma per veicolare il contenuto all’estero possono essere sempre trasferiti al cliente, localizzandone la connessione. Quanto al secondo profilo, sono molteplici le misure che possono prevenire tali pratiche. Ad esempio, trattandosi di accessi condizionati, è facile imporre una soglia minima di consumo nel medesimo territorio nel quale sono definiti i diritti proprietari e, di nuovo, l’imposizione di un sovrapprezzo o il diniego del servizio ove tale soglia non venga raggiunta. Quanto alla pirateria, gli incentivi per la sua emersione e le regole per contrastarla sono, a ben vedere, del tutto indipendenti dalla portabilità, configurandola come un non-issue. Non intendo sottovalutare la complessità e specificità delle pratiche del trading dei diritti, stratificatesi da decenni su base regionale e linguistica, che ha determinato non solo una differenza nei prezzi, ma anche nelle windows di sfruttamento differenziate paese per paese. Ritengo però che proprio lo stimolo della portabilità possa costituire una spinta utile per una evoluzione morbida di queste pratiche, senza minacciare le imprese esistenti e tantomeno un certo grado di diversità culturale tra i diversi paesi europei. Al di là, dunque, del dibattito generale sulla differenziazione territoriale dei diritti proprietari - che andrà affrontato in un nuovo framework europeo - non si comprendono le ragioni per le quali, da subito, non si debba davvero progredire – a parità di definizione dei diritti proprietari - verso forme avanzate e flessibili di ‘portabilità’ (interna) dei contenuti da parte dell’utente. Si comprendono bene, invece, gli effetti negativi del divieto di portabilità sullo sviluppo dell’economia digitale, della quale la fruizione in mobilità dei contenuti costituisce ormai una caratteristica irrinunciabile. A mio avviso, la portabilità dei contenuti, aumentando il valore percepito dal cliente, potrà essere invece, con ogni probabilità, un fattore di decollo della domanda e, perché no, uno dei driver per la creazione del single digital market e per la spinta alla mobilità dei cittadini europei.

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