top of page
Antonio Nicita

Banda Larga: Dilemmi e Policy

Il primo e più importante dilemma, per il nostro paese, riguarda proprio l’attuazione del modello finora perseguito a livello europeo, e realizzato dai regolatori, e cioè quello della concorrenza infrastrutturata su base nazionale. È sostenibile una situazione nella quale alcune aree del paese registrino una pluralità di operatori che effettuano i medesimi investimenti per aggredire la medesima clientela ad alto valore, relegando le altre aree a un sostanziale monopolio, se non all’assenza di ogni investimento a banda larga? Questa domanda sottende due questioni, in parte collegate. La prima riguarda la “sostenibilità locale” della concorrenza infrastrutturale. La seconda attiene alla “sostenibilità nazionale” del modello di concorrenza infrastrutturale ai fini del conseguimento degli obiettivi dell’agenda digitale. Con riferimento alla sostenibilità locale, è evidente che, se gli operatori si infrastrutturano tutti in tutte e sole le zone nelle quali è potenzialmente rinvenibile una domanda “complessiva” a elevato valore, ciascuno di essi – a parità di dotazione tecnologica – potrà aspirare a soddisfare soltanto una porzione di quella domanda, con il rischio di generare ex post un eccesso di capacità aggregata dal lato dell’offerta e, dunque, uno “spreco sociale” dal punto di vista dell’allocazione delle risorse destinate agli investimenti. Ciò è ancor più evidente laddove si consideri che, a fronte di un eccesso di investimenti in alcune aree, vi è un sottoinvestimento aggregato in altre aree, nelle quali non soltanto non si registra una significativa concorrenza, ma nelle quali – proprio a causa del venir meno della disciplina di mercato – l’operatore dominante sarebbe indotto a estrarre la massima rendita dalla vecchia tecnologia e non a realizzare nuovi investimenti innovativi. Peraltro, il tema viene ancor più complicato dal fatto che, dopo aver investito nell’infrastruttura, ciascun operatore dovrà integrare la propria offerta di servizi con contenuti di valore paragonabili a quelli offerti dai concorrenti, circostanza che si può realizzare solo in assenza di esclusive su contenuti drivers. Insomma, c’è il serio rischio che la concorrenza infrastrutturale possa non essere sostenibile, ancorché limitata alle aree geografiche più redditizie. D’altra parte, come dimostrano i recenti dati del Digital Scoreboard europeo, esiste una significativa correlazione tra qualità delle reti (capacità di banda in reti di nuova generazione) e grado di concorrenza sul mercato. Per cui, se da un lato la concorrenza infrastrutturale può generare uno spreco sociale ex post, nondimeno il confronto concorrenziale costituisce un indubbio fattore di stimolo ex ante per l’adozione di investimenti innovativi.

Tuttavia, il problema economico strategico che si pone a livello di policy (e di regolazione) è dato dalla circostanza che l’elaborazione teorica del modello della scala degli investimenti (ladder of investments) e della concorrenza infrastrutturale è stata pensata per coprire un unico ambiente competitivo nel quale si esaurisse il confronto concorrenziale. La circostanza che, nel nostro paese, tale modello sia limitato soltanto ad alcune aree, lasciando offerte monopolistiche a livello wholesale (ad esempio bitstream) o nessuna offerta a larga banda nelle attuali aree in digital divide, deve costringere a un forte ripensamento dell’approccio regolatorio e di policy. Infatti, da un lato c’è il serio rischio di avere un eccesso di investimenti nelle aree aperte alla concorrenza infrastrutturale e un incentivo a ritardare gli investimenti nelle aree in monopolio infrastrutturale, dall’altro c’è il rilevante tema dell’esclusione digitale e della conseguente diversa dotazione infrastrutturale del paese.

Nel quadro sopra delineato, l’idea di una separazione verticale strutturale dell’operatore dominante (il cosiddetto “scorporo della rete” che, nell’ordinamento europeo delle comunicazioni elettroniche presuppone un’iniziativa volontaria da parte del soggetto verticalmente integrato) risolve alcuni problemi ma non altri. È evidente che una separazione verticale dell’operatore dominante tra rete e servizi elimini in nuce i rischi connessi alla discriminazione di prezzo e di qualità tra titolare della rete e concorrenti. La concorrenza si sposterebbe interamente, ed esclusivamente, sulla qualità dell’offerta e non sulla dotazione infrastrutturale. Ciò permetterebbe di risolvere i problemi di coordinamento tra operatori che finiscono per coprire le medesime aree, ma solo nell’ipotesi di assicurare in qualche modo al nuovo monopolista della rete un regime di esclusiva di fatto. Allo stesso tempo, tuttavia, il venir meno della concorrenza infrastrutturale eliminerebbe gli incentivi agli investimenti determinati dal confronto concorrenziale tra operatori infrastrutturati, a meno di una forte azione di policy volta a fissare target di investimento. Ne consegue che la separazione strutturale verticale non garantirebbe comunque – in assenza di una politica incentivante – che il titolare della reti effettui poi gli investimenti laddove necessario o comunque investa necessariamente in misura maggiore di un soggetto verticalmente integrato. Non sembra esistere ad oggi, per il nostro paese, un unico modello, un first best che possa garantire il conseguimento degli obiettivi dell’agenda digitale. Ciò significa che anche le risposte regolatorie e gli orientamenti di policy devono rapportarsi a realtà frastagliate e geograficamente distinte, superando l’equivoco che un medesimo approccio possa essere applicato uniformemente su tutto il territorio nazionale, quantomeno nel medesimo orizzonte temporale.

La specificità italiana, ben fotografata dal Rapporto Caio e puntualmente rappresentata dall’AgCom nelle sue relazioni annuali, dimostra i limiti e, insieme, i dilemmi regolatori e di policy che sono di fronte a noi. Le modalità e le finalità alle quali saranno improntati i prossimi cicli regolatori (2014-2016), nonché le politiche regolatorie dei prezzi di accesso tra rame e fibra, le politiche di gestione dello spettro e, infine, l’intervento pubblico nelle aree a esclusione digitale, sono tutte tessere di un mosaico che va pensato e delineato in modo coerente e finalizzato. L’inerzia dei vecchi approcci regolatori e l’incoerenza delle misure prospettate possono costituire altrettanti fattori inibitori per lo sviluppo dell’offerta e della domanda di servizi digitali a larga banda. Mentre si svolgeva il dibattito sullo scorporo della rete – che, come detto, risolve alcuni problemi, ma potrebbe generarne altri in assenza di impegni credibili e verificabili sugli investimenti – registrando in alcune fasi la preferenza di alcuni policy makers, gli operatori italiani si orientavano, in prevalenza, verso il modello di concorrenza infrastrutturata, in una sorta di “unbundling avanzato” che include l’utilizzo della rete in rame in un punto ancora più prossimo all’edificio (cosiddetto sub-loop unbundling) per realizzare architetture FTTCab indipendenti da quella dell’operatore verticalmente integrato. Nell’attuale quadro che abbiamo di fronte a noi si pongono, dunque, alcune scelte regolatorie e di policy di fondo, relative ai seguenti aspetti: a) definizione degli obblighi di accesso e dei target di investimento da imporre all’operatore dominante con riferimento sia ai servizi infrastrutturali “passivi” (sui quali gli operatori attivano i propri servizi in modo autonomo) sia a quelli “attivi” (rispetto ai quali gli operatori alternativi utilizzano per la quasi totalità l’infrastruttura dell’operatore dominante); b) determinazione dei prezzi di accesso oggetto di regolazione; c) segmentazione geografica dei mercati e della relativa regolazione, sulla base delle differenze territoriali riscontrate nello sviluppo delle infrastrutture e della concorrenza, così come delineate nel citato Rapporto Caio; d) individuazione delle forme sostenibili di promozione/obbligo di coinvestimento in capo agli operatori; e) liberazione di nuovi spazi frequenziali ad alta capacità di banda, da utilizzare in forma condivisa per garantire fruizione a larga banda in mobilità, specie nelle zone a esclusione digitale (sia in forma non licenziataria per usi wi-fi che attraverso le nuove forme del cosiddetto Licensed Shared Access); f) definizione di appropriate politiche dal lato della domanda,2 con un ruolo centrale della PA nella digitalizzazione dei servizi al cittadino; g) declinazione di una politica di accesso non esclusivo a taluni contenuti premium (ad esempio eventi sportivi) per infrastruttura di nuova generazione per il periodo di lancio dell’infrastruttura; h) individuazione del modello di “parità di accesso” alla rete più idoneo per il contesto nazionale. Dal modo in cui saranno affrontate tali questioni dipenderanno gli investimenti e gli assetti di mercato, nonché la capacità dell’Italia di procedere, più speditamente, verso gli obiettivi dell’agenda digitale.

bottom of page